La vita strozzata in Cisgiordania. Reportage dai territori occupati palestinesi

Um Al Kher, il villaggio beduino sulle colline di Hebron che rischia di scomparire
Appeso nella sala centrale del community center del villaggio beduino di Um al Kher, nel governatorato di Hebron, c’è un grande albero genealogico. È scritto tutto a mano e ci sono solo i nomi propri. Ci sono alcune correzioni, alcune aggiunte, qualche appunto di lato. La parte più alta risale a prima della Nakbha del ’48, e da lì si scende, fino ai nomi dei bambini che oggi corrono nel piccolo parco giochi lì accanto. Ogni volta che nasce un bambino, o che un abitante del villaggio si sposa, si aggiunge un pezzetto. È così che la comunità segna l’appartenenza a questa terra. Una terra spezzata, mangiucchiata, occupata un pezzo alla volta. Sopra le baracche dei residenti, in cima alla collina, svetta l’insediamento israeliano di Carmel. Da qui, spesso, i coloni arrivano, terrorizzano la popolazione palestinese, spesso picchiano, a volte uccidono. “Dopo il 7 ottobre, la nostra vita è completamente cambiata”, ci racconta Hanady Hathaaleen, residente del villaggio. “Non li ferma nessuno, ogni giorno c’è un attacco diverso e noi non abbiamo nessun controllo su quello che succede. Ogni giorno chiediamo alla polizia di fermarli, ma non fanno mai niente”. Anche suo marito è stato ucciso da un colono. Awdah Hathaaleen, era un insegnante di inglese, un attivista pacifista, aveva collaborato al film «No Other Land». È stato ucciso quest’estate con un colpo di pistola da un colono, mentre filmava l’ennesima violazione. Sua moglie ci racconta il dolore di quel 28 luglio, e il dolore che porta con sé ogni giorno, per sé e per i suoi tre figli. Ha ben chiaro, però, come tutti qui, che andarsene non è un’opzione. Nemmeno ora che i coloni stanno costruendo un nuovo collegamento tra l’insediamento di Carmel e un outpost poco più a valle, che isolerà ancora di più il villaggio di Um Al Kher. Nemmeno ora che il governo israeliano ha emesso un nuovo ordine di demolizione, l’ultimo di una ventina solo nell’ultimo anno. Ora a rischio sono diverse decine di case, il piccolo parco giochi in cui corrono i bambini, la scuola di inglese in cui insegnava Awdah e in cui tutti qui hanno imparato l’inglese perfetto con cui ci parlano e il community center che ogni giorno ospita attivisti da tutto il mondo, oltre ad essere il cuore della comunità. “C’è poca speranza che il processo legale volga a favore della comunità”, ci racconta Eid Suleiman, un’altra delle anime del villaggio, ma nessuno ha intenzione di fare passi indietro, nessuno ha intenzione di interrompere l’albero genealogico di Umm Al Kher. “Potranno distruggere le case – dice Hanady Hathaaleen – ma non le nostre anime”.
Nabi Samwil e Sheikh Jarrah, l’occupazione soffocante dei coloni a Gerusalemme
Abu Ramadan non vede suo figlio da due anni. È in carcere da 5 anni, è stato arrestato quando era ancora minorenne. Dal 7 ottobre ad oggi non ha più avuto notizie di lui. «L’ultima volta che siamo andati – racconta – mia moglie ha chiesto solo di potergli fare ciao con la mano, hanno detto di no». La storia del figlio di Ramadan è una tra tante: in Cisgiordania è difficile incontrare qualcuno che non sia mai stato arrestato, o che non abbia un parente stretto che è o è stato in carcere. Le motivazioni, spesso, sono le stesse: il lancio di un sasso, una lite troppo accesa con un colono. È questo il caso del figlio di Abu Ramadan, arrestato mentre cercava di difendere la propria casa dai coloni a Sheikh Jarrah, complicatissimo quartiere di Gerusalemme Est, che da anni resiste a espropri e distruzioni. Abu Ramadan racconta che ora vogliono abbattere anche la sua casa, quella dove ha vissuto per tutta la vita, e dove prima di lui avevano vissuti i suoi genitori. Non vuole lasciarla, cerca di prendere tempo a colpi di ricorsi legali, come fanno da anni tutti i residenti del quartiere. Anche qui, però, come in tutto il resto della West Bank, dal 7 ottobre in poi la situazione è peggiorata. La pressione dei coloni è sempre più forte e vivere l’uno accanto all’altro è sempre più insopportabile. Gerusalemme non è mai stata più divisa. Non c’è solo il muro, ci sono gli insediamenti che si allargano, le strade che si chiudono, interi villaggi che vengono tagliati fuori.È il caso, ad esempio, di Nabi Samwil, un piccolo villaggio a soli quattro chilometri a nord di Gerusalemme, in cima ad una collina che negli ultimi anni è stata pian piano occupata in modo sempre più esteso dai coloni. Si vede la cupola della roccia da qui, ma Nabi Samwil rientra nell’Area C, ovvero sotto il pieno controllo amministrativo e militare israeliano, intrappolato tra il muro di separazione, che qui è noto come “muro dell’apartheid” – che lo isola dal resto della Cisgiordania – e il confine municipale di Gerusalemme, in cui gli abitanti dell’area C non possono andare. Nabil Samwil è diventato un’isola, i suoi abitanti sono già stati cacciati dal loro villaggio originale, a poche centinaia di metri da qui, nel 1971, perché è stato costruito un parco archeologico. Ora sono intrappolati in baracche che dovevano essere temporanee e sono diventate definitive, anche se lavori per migliorare o ingrandire le case sono vietati senza il permesso israeliano. Gli abitanti di Nabi Samwil possono lasciare il villaggio solo passando dai checkpoint, e amici e parenti non possono andare a trovarli senza un permesso speciale nemmeno in caso di un funerale. La loro vita è strozzata tra colonie, muri, burocrazia e checkpoint. L’obiettivo è togliere loro l’aria, costringerli ad andarsene. La stessa cosa che succede, in scala molto più grande, con la costruzione degli insediamenti del progetto E1: tagliando in due la Cisgiordania, interi villaggi resteranno isolati, e la vita diventerà ogni giorno più impossibile. È in questo modo che l’occupazione si concretizza nel modo più chiaro possibile, è in questo modo che l’annessione si realizza, silenziosamente, anno dopo anno dopo anno. Ogni giorno si stringe un po’ di più il nodo sul collo, finché non passa più l’aria.
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